giovedì 6 novembre 2008

Maddalena

E andrai in giro
come la Maddalena.

Vestirai solo
di quei capelli
che non tagli,
per vanità.

Destinata ad alimentare
leggende
sulla tua virtù
e a sfidare e spuntare
desideri.

Ti coprirai
di te stessa,
paglia e fieno,
fino a far perdere
tracce di te.

Ti smarrirai
tra le tue chiome,
per poter dire,
tra lo sconcerto:
"Penitenziagite!
Casta Diva!
Penitenziagite!".




Donatello
Maddalena, 1454-1455
Museo dell'Opera del Duomo, Firenze

martedì 7 ottobre 2008

Lenta lotta

Assediami,
espugnami,
conquistami,
Sonno.

Fa' inginocchiare
la mia superbia;
decapita
la mia volontà;
uccidi
i miei sogni
di bambina.

Conquistami,
e seducimi.

Riportami
al mio mondo primitivo;
osservami
nei miei giochi selvaggi;
liberami
nella tua riserva.

Mi abbandoni all'improvviso,
senza una voce,
senza un battito.

Nell'agonia
della tua attesa.

07.10.2008




John William Waterhouse - 1874
Sleep and His Half-Brother Death
Private collection

venerdì 5 settembre 2008

Routine

Come sangue nel naso,
emorragia invisibile,
poco sangue,
troppi tamponi.
Ingoiare parole incerte,
perchè la digestione sia difficoltosa.
Credere nel verso,
chè il recto è già svelato.
Aspettare e concentrarsi
sui muscoli, sui nervi, sui tendini.
Lavanda e sciroppo d'acero
a lenire e zavorrare.
Poco, come il sangue,
ti riporta a casa, sapori antichi.
Poco, come la routine,
ti ottunde i sensi, apparente sicurezza.

06.04.2008



Odilon Redon, Fleur de sang, 1895, musée d'Orsay, Paris


lunedì 21 luglio 2008

Foemina

Esce dalla stanza
si spoglia delle vesti antiche
si lava via l'orgoglio
si scioglie i capelli.

Comincia così
il suo cammino,
nuda, sulla neve,
principio unico, matrilineare.

Costante e lenta,
coperta solo
del sorriso obliquo
che strega le genti.

Rassicurante
come l'incertezza
del domani.

Ad ogni passo
accoglie
consola
risana.

A ogni passo
una lacrima e un sorriso,
per la coscienza dell'antico
e il coraggio dell'avanzare.

Ecco colei che accoglie
ecco colei che crea
ecco colei che cammina.
Nuda, sulla neve.


12.07.2008





Alberto Giacometti
Donna che cammina (Femme qui marche), 1932
Bronzo, altezza 144,6 cm
Collezione Peggy Guggenheim, Venezia

martedì 8 luglio 2008

Hopeless

"Guarda meglio, non hai visto quel pacchettino grigio, in fondo al sacchetto?"
E lo trovai davvero, quel fagottino che al tatto sembrava un libriccino morbido.

Presi a scartarlo, con furia misurata. A prima vista sembrava una sagoma di cartone, un orsetto, di quelli a cui puoi cambiare gli abiti di carta. A un'occhiata più attenta, si rivelò un abitino beige, alla marinaretta, da neonato.

Sorpresa, muto stupore. Un singhiozzo. Un altro.
Lacrime gonfie e un urlo muto, dentro di me.

"Non posso, non posso, non posso". Ripetuto all'infinito.

Un dolore imploso e implodente, che non lasciava entrare nulla, neanche l'aria. Provai a singhiozzare, provai a farmi strada nell'aria. Ma "non posso, non posso, non posso!". Provai ad alzare la testa, ma le lacrime mi lavavano la faccia e mi facevano il solletico sulla pelle ancora asciutta.
Era un'angoscia infinita, non ne vedevo la fine. Perdurante costanza.
E l'apnea. Sempre più lunga. Sempre più infrangibile. Un singhiozzo dietro l'altro, e non respiravo, non respiravo, non respiravo, quasi affogata dalle mie stesse lacrime.
"Non posso, non posso, non posso". Non potevo respirare?

Un guizzo, un movimento improvviso, uno strappo.
E sono sveglia.
Sono sveglia e respiro. Sono sveglia e non singhiozzo. Sono sveglia e non ho abitini da neonato tra le mani.
Non potevo. Non posso.
Posso?



Roy Lichtenstein
"Hopeless"
1963, oli on canvas

giovedì 19 giugno 2008

Acqua Torbida

Il fiume.
Sulla banchina,
dall'acqua,
due occhi
mi puntano.
Un bagliore, un riflesso, un battito.
Invece,
solo un pesce.
Che si allontana,
secondo corrente.

23/02/2008



Foto mia, St. Moritz, 23/09/2008

venerdì 6 giugno 2008

Eva madre

E’ già autunno.
Mi vien da piangere. Mi vien da piangere e non so far altro che camminare sotto la pioggia, un ombrello giallo, come l’umore che ho perso.
Mi mescolavo sconosciuto a quel gran deserto che è la folla”. Avevo scritto questa frase di Chateubriand sul mio diario, al liceo. Possibile che cercassi ferocemente l’anonimato pure allora? Possibile che già allora desiderassi la frustrazione di non essere riconosciuta, del nascondermi, del farmi piccina? In effetti, quando mi coglievano impreparata, i professori, intendo, avevo la sensazione di scivolare lentamente sotto il banco, sempre più giù, sempre più piccola. Fino a diventare grande come un cucchiaino da tè, come la “dolce signora Minù”, il cartone animato che vedevo da bambina.
Mi mescolavo sconosciuto a quel gran deserto che è la folla”. Sono qui, a camminare spedita per le vie del centro, col mio banale ombrello giallo. Meno male che è banale. Ormai non sopporto più tutte queste persone tragicamente uguali, omologate, masticate in un unico sfoggio di tentate originalità.
Sono qui, sotto la pioggia, e fisso negli occhi chi mi passa accanto, chi incrocio, chi mi supera. Li fisso negli occhi. E ogni sguardo, il MIO sguardo, è una freccia intrisa di fiele, arsenico, curaro. Odio distillato. Gentile sconosciuto. Non ti conosco, mi guardi perplesso, preoccupato per me e il mio umore. Ti chiedi come un giovane visino angelico possa essere così sfigurato e deformato nel grigiore metropolitano. Gentile sconosciuto, lo vedo: vorresti parlarmi, vorresti fermarmi, vorresti sfuggirmi e scappare dal mio sguardo. E per questo ti odio. Chiunque tu sia. Ti odio. Davvero. Nulla di personale. E’ solo che respiri. E’ solo che il tuo camminare in una direzione mi dà l’idea che tu abbia una meta, un fine, un obiettivo. Nulla di personale, davvero. Oltretutto, se tu mi fermassi veramente, probabilmente ti sorriderei anche. Se mi chiedessi informazioni, te le darei volentieri. Adoro dare informazioni. Mi piace sentirmi utile. Per 5 minuti mi cullo nell’illusione che tu ti ricorderai di me.
Ma così ti odio. Pazienza. ”E’ la vita”, “Capita”, “Succede”… filosofie da basso profilo che ci inculcano fin da piccoli. Mi chiedo, a volte, che scopo aveva (o avevano) chi ha redatto il best seller “Le leggi di Murphy”… secondo me, oltre a far soldi con i luoghi comuni, ha tentato di sdoganare l’accettazione cinica di quanto accade e prosciugarci di ogni istinto di reazione, al motto di “tanto…”. “Shit happens”. Che cagata, per rimanere in tema.
Il cinismo è stupido. Ti svuota. Invece io, gentile sconosciuto, ti odio. No, non ti accetto come un male necessario. Ti odio proprio. E’ un sentimento molto più vivo, non credi? Sapevo che mi avresti capito. Siamo d’accordo, l’odio non sarà vitale, ma è vivo. E può preludere anche a qualcos’altro.
Rapida, rapida. Fa freddo. Eppure sudo. Sudo sotto il cappotto, sotto la sciarpa, sotto i guanti. Per fortuna ho la canottiera di cotone. Che asciuga. Asciuga sudore, umori, odori. Tutto mio. Corro, quasi. Chissà… magari questi sconosciuti che guardo con odio pensano che io stia andando da qualche parte, che sia in ritardo a qualche appuntamento o che abbia una voglia matta di andare a litigare.
Pensino quel che vogliono. No. Quando il tempo è così, quando il mio umore è così, l’unica cosa che posso fare è uscire per strada, deviare dalle solite mete e odiare il mio prossimo. Disperdo il mio odio. Lo dilapido a piene mani. Lo lascio libero. Una volta liberato, è difficile che torni indietro. E’ così selvaggio. Al massimo, ne produrrò altro. Non c’è mai penuria di materiale, di buon materiale, per riprendere a odiare e sfogarsi.
Tutto questo per non odiare chi veramente dovrei odiare e affrontare. E’ molto più comodo dispensare veleno in giro, senza neanche far caso ai volti nei quali punti gli occhi.
E’ incredibile che la paura ti spinga a produrre tossine in tal misura da riversarle così, casualmente, piuttosto che incanalarle nella giusta direzione e renderle energizzanti.
Pensa te… riesco a sprecare persino il mio odio. Sarà pure vivo, ma riesco a sprecarlo da dio, come tutte le altre mie energie.
Odio. Ho ripetuto questa parola talmente tante volte che ormai me ne sfugge il significato.
Gentile odiato sconosciuto, mi aiuterai a capire che cosa significa, per me, odiare? No, so già che non mi aiuterai. Hai la tua meta. E infatti, è per questo che ti odio.
No, non è invidia. O meglio: cerco di convincermi che non è invidia.
Ma sono qui. Sotto il mio ombrello giallo, sotto la pioggia, fremente di caldo, il fiato si condensa, le gambe mi reggono a stento. Forse dovrei rallentare. Forse. Il lungo viale affollato sta finendo. Alla fine rallenterò. Mi infilerò in una stradina deserta, di quelle medievali, strette, antiche; una di quelle dove ci si rifugia in estate, sempre all’ombra, sempre fresche. E là rallenterò. Mi fermerò a vedere le poche vetrine. Ad ascoltare i rumori della città, che mi arriveranno lontani, ovattati. Perché lì non c’è traffico, non c’è folla. Lì posso ricordare.
Cammino veloce, spedita. Lo sguardo è ancora profondo, carico d’odio, intenso, caldo, bollente. Non mi vedo, ma so che è così. Non è glaciale, sfatiamo questo mito dell’occhio azzurro. Anche le fiamme possono essere blu. Meglio così intenso e impegnato a comunicare odio (e non disprezzo) piuttosto che attendere che gli occhi si gonfino di lacrime. Mi vien da piangere. Ma non è il momento. Non ora. Più tardi.
Cammino e mi perdo. Mi perdo e mi stanco. Perdo tempo e mi sfogo. O meglio, comincio a sfogarmi.
Poi giuro, giuro a me stessa, giuro così forte da potermi contraddire, sconfessare e tradire con estrema facilità. Giuro che, una volta che mi sarò stancata e sfogata, riprenderò a costruire, a vivere, a essere amata, a essere odiata. A Essere. Fino alla prossima volta.
Mi vien da piangere sotto il mio ombrello giallo.
Mi chiamo Eva. Vorrebbe dire Vita. Vorrebbe essere Vita.
Chissà se la prima Eva odiava. Chissà se correva sotto la pioggia. Lei, lei no, lei non poteva odiare la folla. Lei poteva odiare Adamo e la sua debolezza; poteva odiare i suoi figli; odiare il loro odio, odiare il loro amore. Poteva odiare Lilith, creata dal fango, essere primigenio come Adamo, dal quale Eva trasse radici. Poteva odiare le sue radici. E i suoi rami. Poteva odiare tutto ciò. Ma poteva anche amarlo. Gran cosa il libero arbitrio.
Mi chiamo Eva. Fin da bambina “Porca Eva”. Mica perché io sia una porca, nel senso lato del termine. Me perché faceva ridere. Fa ridere. Una volta ho sentito imprecare mio padre: “Puttana Eva!”. Credo si fosse tagliato un dito. Non ho neanche dovuto chiedere a mamma che volesse dire “puttana”. Un telefilm me lo aveva già insegnato. Per fortuna papà non mi ha vista. Ero nell’altra stanza. Altrimenti avrei dovuto ricordargli che il mio nome l’aveva scelto lui. Che neanche era cattolico, poi (ora lo è. Per convenienza, ma lo è).
Il ticchettio della pioggia sul mio ombrello sta diminuendo d’intensità. No ti prego. Non ti fermare. … Grazie.
I polpacci mi tirano. Incomincio a sentire le punte dei piedi bagnate. Spero di non ammalarmi. Quando mi ammalo divento triste. E poi faccio fatica a stare meglio.
Oggi odio, ma di solito sono nel torrente della vita, la vivo, rido, scherzo. Vivo. Eva vuol dire Vita, no?
Oggi odio. Mi crogiolo nel mio odiare. Ha quasi un senso. Eppure ho nostalgia della vita e di ciò che essa comporta, l’amore.
Ma oggi odio. E ho paura dell’amore, nonostante lo desideri.
E’ il desiderio della frustrazione. O la paura dell’appagamento. Che poi è la stessa cosa.
Gentile sconosciuto, tu chi ami? Non importa, non voglio saperlo. Potrei odiarti ancora di più.
Perché si ha paura di essere appagati? Credo che sia perché l’appagamento è compimento, è fine. Non arrivo a dire morte, ma forse sera sì. Poi bisogna ricominciare a desiderare daccapo. Un tragitto fatto di brevi tappe: individuo – desidero – lavoro e costruisco – ottengo. E via da capo. Credo, invece, che il mio misticismo mi porti a cercare un percorso ben più lungo. Non tanti piccoli obiettivi da realizzarsi, ma un unico grande sogno. Credo anche che sia un’utopia irrealizzabile. Ma non è cinismo, questo. No, no. E’ che non mi sento a mio agio in questi limiti. In queste tappe.
Mi chiamo Eva, Vita. Ma non credo di aver ancora afferrato bene come si vive la vita. Non credo di aver mai accettato i limiti. Ma cos’è? Pigrizia, accidia? O solo una falsa ribellione.
Mi chiamo Eva. Cammino in centro, sotto la pioggia e un ombrello giallo. Cammino odiando la folla. Cammino veloce, come per sfuggire a qualcuno, senza meta.
Ma una meta ce l’ho: casa. Casa, il mio quaderno; e la mia perseveranza.
La mia mente è veloce. E tutti i miei pensieri mi sembrano degni di essere annotati. A volte profondi, a volte geniali, a volte arzigogolati, a volte comici, generosi, acidi, filosofici. Ma tutti, senza fallo, si perdono nella memoria. Alcuni sono gradini della mia crescita, altri evaporano, come alcol sulla pelle… lasciano solo un vago sentore di buono.
Ho letto di un’eroina di carta che scriveva, scriveva, scriveva. Teneva un diario (come la mia amica Sara. Ha riempito annate e annate di agende e diari). Cosa che io non sono mai riuscita a fare (solo ora, quando me ne ricordo e quando le mie riflessioni sono particolarmente limpide, riesco a segnare il mio quadernino). Era bella, e intelligente, e corteggiata. E distante. Teneva tutto distante. E questo lo so fare benissimo. Aveva cominciato decine e decine di racconti; scrivere un romanzo era il suo chiodo fisso. MA si bloccava. Oltre a un certo punto non riusciva ad andare. Come nelle relazioni sentimentali: non si lasciava andare. E se lo faceva, si faceva ferire, lasciare. A volte lasciava, però, dopo essere stata ferita.
Anch’io non so amare oltre a un certo punto. Anch’io mi blocco ogni volta che scrivo.
Ma io, Eva, non sono un’eroina di carta. No. Non farei tirare a nessuno i fili della mia vita, non sarei la sceneggiatura di nessuno. Neppure se fossi veramente di carta.
Odiato sconosciuto, ti sembro forse di carte? Dalla spallata che mi hai appena tirato, direi di no. Sì, ti scuso. Ma guarda dove vai. Non evitare i miei occhi. Tra poco l’odio finirà.
Le gambe tremano. Ma ho finalmente raggiunto il vicolo quieto, la stradina semideserta, protetta dal traffico dai suoi acciottolati assassini. Solo i masochisti e gli amanti la sanno apprezzare in pieno. Mi diverto a pensare di appartenere a entrambe le categorie. Ma no, io sono soltanto Eva.
Qua posso rallentare. Il fiato si fa regolare. Continua ad addensarsi. Ma sono protetta dal calore della fretta di prima. Ho esaurito il nutrimento, l’odio carburante della velocità.
Ora rimane da piangere. Non c’è più nessuno da odiare, né rabbia repressa per alimentare l’odio. Sono spossata. Vorrei piangere, di disperazione e di sollievo. Sono come svuotata. Cammino, lenta. Ora l’ombrello giallo è nella mia mano sinistra. Ci sono case; più pochi, ormai, i negozi. Non mi levo il cappello. Ho i capelli intrisi di sudore.
Stanotte ho sognato. Ho sognato di essere al mare. Di non sapere come vestirmi. Di sapere come vestirmi, con la maglietta rosa. E di non trovarla, quella maglia, perché non ci vedevo più. I miei amici mi avevano lasciata a casa, stufi di aspettare. Alla fine li avevo raggiunti in bici. Parlavano, ma non li ascoltavo. E loro ignoravano me. Erano arrabbiati con me. Non capivano perché io fossi così diversa, da loro, da me. A volte vedevo, altre no.
Questa notte non respiravo, o meglio, respiravo a fatica. E con poco ossigeno, sognavo. Sognavo tanto. Malinconia, senso di oppressione e abbandono. La schiavitù del deja-vu.
E’ autunno. Non ho mai effettivamente capito perché nella nostra società l’autunno – l’inizio della fine – coincida con l’inizio psicologico dell’anno. Forse perché è faticoso. Tutti gli inizi sono faticosi. Ecco… ci dev’essere stata una sovrapposizione di questo tipo.
Ora mi viene quasi da piangere. Non più da piangere e basta. Io ho rallentato, e anche lo stimolo alle lacrime si è attenuato.
Con la velocità mi sfogo, butto via, espello. Ma non vedo molto chiaro. Forse è per questo che stanotte non trovavo la mia maglia rosa. Per fortuna, a un certo punto, è quasi obbligatorio rallentare. Così la vista si fa più nitida.
L’odiato sconosciuto, anche se gentile, è sfumato. Come sfumano le prime gocce di pioggia sull’asfalto caldo. Anche se quello è il tempo degli acquazzoni estivi. Mentre ora siamo in autunno. Vapore che mi lascio alle spalle, nel gran viale.
Viuzza antica che mi porta a casa. Per vie tortuose ci arriverò. E lentamente. Con un nodo in gola. Nodo di paura e di speranza.
Quando e se avrò una figlia, mi piacerebbe chiamarla Speranza. Speranza, Hope, Esperança, Esperance, Spes, Elpis. Ma è troppo presto, ora. Forse sarà sempre troppo presto per il quadretto di felicità che mi sono costruita e inventata. Il quadro è sempre lì, fisso, immobile; mutano alcuni particolari, a volte. Sembra quasi uno di quei quadretti con le figure in rilievo, quelle case di bambola con tutti gli arredi in miniatura.
Una volta ne ho visto una, di casa di bambole. Era bellissima. Non una di quelle case che le bambine vogliono da piccole. No. Era grandissima. La riproduzione in scala di un mini quartiere. Con casa padronale, cantine, soffitte per i domestici. Nei vani a pianterreno c’erano i negozi; al primo piano la sarta e la sala da the. Arredata alla perfezione, in stile metà ‘800, enorme, abitata. Ci ho vissuto anch’io per mezz’ora. In quella mezz’ora d’incanto, passata a osservarla da fuori come se in realtà vi fossi dentro io stessa.
La mia speranza è come quella casa. Con arredi e figurine che posso muovere a mio piacimento, come a giocarci.Ed è triste. E’ triste che io voglia controllare la mia vita come una casa di bambola. E’ normale, ma triste.
Credo che, alla fine, non chiamerò mia figlia Speranza. Potrebbe rischiare di diventare bambola in casa di bambole. E prigioniera di me, sua madre, la vita. Eva.
No, credo che terrò le mie speranze per me. La mia Speranza. La coltiverò e la cambierò in base a quello che la Vita, io stessa, Eva, vorrà darmi.
Mi chiamo Eva. Il fiato è tornato normale. Si condensa. Piove. Piango. Sotto il mio ombrello giallo. Sono sola, single, in gergo tecnico. Sono al terzo mese. Ragazza madre. Eva madre. E avrò una figlia. E la amerò. E la odierò. E la amerò. In qualsiasi modo la chiamerò. In qualsiasi modo si chiamerà. Perché sarò sempre sua madre. Eva.



"Adamo ed Eva", Tamara de Lempicka

1932, collezione privata



______________________

Questo testo l'ho scritto anni fa. Non ricordo l'anno e ora non ho voglia di andare a cercare.

Rileggendolo, lo trovo ancora molto acerbo. Ma gli sono affezionata. Perchè mi è letteralmente sgorgato fuori, in un momento di profonda tristezza. E fu catartico.

venerdì 30 maggio 2008

Crisi di mezza età

1# Viviamo solo d'oggi, me ne rendo conto, sai?

2# Attraversano la strada vuoti simulacri che stentano ad arrivare a sera.

1# "Del doman non v'è certezza". Bella stronzata.

2# Accendono candele prima che faccia notte. Solo per il sottile piacere di veder bruciare le falene in volo.

1# Ma ottimo alibi per chi non sa far fronte. Tutto e subito. E che il resto vada in malora.

2# Invidiano, e spengono le luci della notte per paura delle ombre.

3# Puro Vangelo. Sto andando a fuoco. Ma so che la mia ombra fa paura.



"Candle and Moth", Virgil Elliott,
Collection of Fred and Sherry Ross

venerdì 23 maggio 2008

Perle

E' una mano aperta,
questo dolore
che sembra infinito.

Lento,
con costanza,
si stringe a pugno,
guantato di velluto,
a lutto.

Sempre più piccolo,
immemore,
risucchiato in se stesso,
perla nera,
lucida,
di seta,
orna il mio collo.

E poi, scompare in un cassetto.

11 febbraio 2008


Johannes Vermeer,

Girl with a pearl earring, 1665,

Royal Picture Gallery Mauritshuis, Den Haag (l'Aja), NL


giovedì 15 maggio 2008

Intolerance

Che è questo feroce desiderio di sopravvivenza, di autoconservazione, che mi affila i canini e mi inspessisce la pelle?
Che è questa insofferenza ai doveri, ai desideri, ai favori?
Che è questa sfiducia, quest'occhio malizioso che incupisce gli specchi?
Datemi un telo di iuta a trama larga.
Che mi nasconda, che mi ripari, che mi catturi.
O forse, solo, che mi impregni del suo odore. Selvatico, ancora.



Francis Bacon, Lying Figure in Mirror, 1971
Museo de Bellas Artes, Bilbao



* * * Una cosa che ho imparato: se faccio qualcosa, è perchè lo voglio. Non perchè mi piego.
La realtà, a modo mio, la vedo. Anche quei maneggi che alcuni, pochi, grazie al cielo e buon per loro, tentano maldestramente di fare.
Perchè se c'è una cosa che loro, proprio loro, non hanno imparato, è che per ottenere i risultati bisogna porsi in maniera chiara e limpida. Aperta. Pronti alla discussione. Disposti anche a perdere. Ma decisi a imparare e confrontarsi.
Non è detto che in una sconfitta non si celi anche la conquista della dignità. Peccato che questo atteggiamento sia appannaggio di quei pochi, coraggiosi, che non han paura di se stessi.. e tantomeno di quella loro immagine che gli occhi altrui rimandano. Non è da tutti, essere se stessi.

venerdì 9 maggio 2008

Tende aperte

Seduta nella mia stanza,
velata da tende pesanti,
annuso aria nota.
Poi un gesto, e un'idea;
l'orizzonte mi ferisce,
con la sua profondità:
"c'è una dolcezza
nella luce
e gli occhi vedono
felici il sole*".



13 gennaio 2008

*: cit. Quoelet, o L'Ecclesiaste, 11,7





Caspar David Friedrich, Woman at a Window (1822)
oil on canvas 44x37cm
Berlin, Nationalgalerie

lunedì 28 aprile 2008

Troppe Parole

Troppe parole, troppe.
Meglio un po' di silenzio.
Ho scoperto che con uno sguardo posso dire molte più cose.
Ho scoperto che la mia bocca, chiusa, rivela molto di più.
Ho scoperto che le mie orecchie possono credere, ma il mio cuore sa.
Ho scoperto che le azioni valgono più di mille parole.
Ho scoperto che a occhi chiusi le parole mi confondono.
Ho scoperto che a occhi aperti le parole sono pappagalli.
Ho scoperto il valore delle persone.



Renè Magritte, La tricherie des images, Los Angeles County Museum of Art

sabato 19 aprile 2008

TI HO VISTA

Ti ho vista, sai,

fior di tortura e sofferenza,

che ti nutri di romanzi

e bevi con gli occhi

la vita altrui.

Ti ho vista piangere

per una pagina stampata,

ti ho vista torcere le mani

sorridente, mesta, rassegnata a te stessa.

Ti ho vista, infuocata,

la bocca contratta in parole impetuose,

labbra umide di passione.

Ti ho vista dormire,

ignara e tormentata,

tra lenzuola macchiate

sotto uno sporco soffitto.

Ti ho vista,

ti ho vista,

ti ho vista.

Impalpabile, intoccabile,

fumosa e sfuggente.

Svettante, esistente,

in mezzo alla folla che ti confonde.

Ti ho sognata.

Come non sei.

Come vorrei.

Come non sai.


16.04.2003


Danae, Gustav Klimt, 1907-08, Leopoldmuseum, Vienna


mercoledì 16 aprile 2008

Honeysuckle

Oh, mia Honeysuckle.

Tu non sai, ma ti osservo, da questo spiraglio. L’odore del caprifoglio, la musica di Lena Horne, “Honeysuckle Rose”, la tua gamba che si stende fuori dall’acqua, grondante schiuma di caprifoglio, honeysuckle.

Ma tu sai, oh, se lo sai, mia piccola tentatrice.

Lasci la porta socchiusa, sempre. “E’ per la gatta, sai? Adora farmi compagnia mentre faccio il bagno”.

Gala è lì con te, ora. Gioca con la tenda, o si lecca la zampa bagnata, piccola palla di pelo impertinente. Neanche ti guarda. Le basta la tua compagnia e il balenio di una tua mano da sotto la tenda.

Ma tu sai che sono qui. Te lo puoi immaginare. “Se Gala apre la porta, socchiudimela, o entra freddo. E non guardare, ti spiace?”. Ingenua malizia.

Ti guardo e non respiro. Non voglio darti certezze. Ti lascerò con la sensazione di due occhi piantati lì, sul tuo collo, lì, tra i tuoi seni, lì, sulla tua fronte, lì, sulle tue caviglie. Ovunque il tuo corpo emerga dalla ceramica e dalla schiuma, oh Honeysuckle, sarà lì che i miei occhi ti berranno.

“Non parliamone mai più. Non chiedermelo mai più, ti spiace?”. Che crudele promessa mi hai costretto ad accettare. Mi hai ridotto al mutismo, mi hai spogliatodella mia natura. Ma nulla mi hai detto del pensiero e del ricordo.

Mi imponi la tua presenza, ma mi impedisci il tatto. Mi concedi l’udito, ma mi rubi il sapore. Mi appago, non visto, di un bastevole quanto flebile profumo. Raro lusso. Supplizio di Tantalo aggravato e appesantito dal ricordo.

Quell’unica notte. Quell’incoscienza. Quelle risate. Quei sospiri. Il sapore e l’odore della saliva. L’odore e il sapore della pelle, la tua e la mia, oh, Honeysuckle.

Quegli umori, quella carne, quei denti, quella lingua.

Quel singulto, unico, quasi di sorpresa. Quel silenzio, poi, quel tuo silenzio.

La luce che filtrava dalle imposte incorniciava il tuo sguardo. Muto rimprovero. “Non parliamone mai più. Non chiedermelo mai più”. Nessun’altra parola, quella sera. Solo il tuo respiro regolare, fino al mattino. Al risveglio eri già tornata nella tua stanza.

Riprendesti la tua routine, da sola, indipendente come la tua Gala, giocherellona e indifferente come una gatta. E io, comparsa delle tue giornate, vivo al tuo fianco, divido i tuoi spazi. Condivido solo le spese.

Questi attimi rubati, queste immagini, questo profumo, questi ricordi, attraverso una fessura…

“Chiudi la porta, Paul. Ti spiace?”


Johan Laurentz Jensen
A Still Life with Honeysuckle, Blue Cornflowers and Bluebells on a Marble Ledge, 1831
Private collection

martedì 15 aprile 2008

Dietro la porta

Vieni.

Vieni a bussare alla mia porta.

Un colpo forte. Tre colpi lievi.

Il tuo impeto mi promette carezze.

Il tuo urlo mi sussurra stramberie.

Ti aspetto, qui, dietro la porta,
seduta, da tempo immemore.

Batto col piede.
Bang! Toc, toc, toc.

Batto con la mano.
Ciaf! Toc, toc, toc.

Batto con la testa.
Tum! Toc, toc, toc.

Vieni.

Vieni a bussare alla mia porta.



foto di Elena Barsottelli

lunedì 14 aprile 2008

Nostalgia della Terra




Manca la terra.
E' quel languore che si insinua tra le membra. Nelle braccia. Tra le gambe. Nel naso.
Nostalgia che non può durare.
Nostalgia che ci porta su un piano superiore.
Nostagia che ci permette di guardare da lontano.
Un pugno di terra. Anche a mangiarlo, non ci apparterrà mai.
Per quanto.
Quando mai si è visto il figlio partorire la madre?
Nostalgia della Terra.









Sir Edward Coley Burne-Jones
Earth Mother, 1882
Worcester Art Museum