giovedì 19 giugno 2008

Acqua Torbida

Il fiume.
Sulla banchina,
dall'acqua,
due occhi
mi puntano.
Un bagliore, un riflesso, un battito.
Invece,
solo un pesce.
Che si allontana,
secondo corrente.

23/02/2008



Foto mia, St. Moritz, 23/09/2008

venerdì 6 giugno 2008

Eva madre

E’ già autunno.
Mi vien da piangere. Mi vien da piangere e non so far altro che camminare sotto la pioggia, un ombrello giallo, come l’umore che ho perso.
Mi mescolavo sconosciuto a quel gran deserto che è la folla”. Avevo scritto questa frase di Chateubriand sul mio diario, al liceo. Possibile che cercassi ferocemente l’anonimato pure allora? Possibile che già allora desiderassi la frustrazione di non essere riconosciuta, del nascondermi, del farmi piccina? In effetti, quando mi coglievano impreparata, i professori, intendo, avevo la sensazione di scivolare lentamente sotto il banco, sempre più giù, sempre più piccola. Fino a diventare grande come un cucchiaino da tè, come la “dolce signora Minù”, il cartone animato che vedevo da bambina.
Mi mescolavo sconosciuto a quel gran deserto che è la folla”. Sono qui, a camminare spedita per le vie del centro, col mio banale ombrello giallo. Meno male che è banale. Ormai non sopporto più tutte queste persone tragicamente uguali, omologate, masticate in un unico sfoggio di tentate originalità.
Sono qui, sotto la pioggia, e fisso negli occhi chi mi passa accanto, chi incrocio, chi mi supera. Li fisso negli occhi. E ogni sguardo, il MIO sguardo, è una freccia intrisa di fiele, arsenico, curaro. Odio distillato. Gentile sconosciuto. Non ti conosco, mi guardi perplesso, preoccupato per me e il mio umore. Ti chiedi come un giovane visino angelico possa essere così sfigurato e deformato nel grigiore metropolitano. Gentile sconosciuto, lo vedo: vorresti parlarmi, vorresti fermarmi, vorresti sfuggirmi e scappare dal mio sguardo. E per questo ti odio. Chiunque tu sia. Ti odio. Davvero. Nulla di personale. E’ solo che respiri. E’ solo che il tuo camminare in una direzione mi dà l’idea che tu abbia una meta, un fine, un obiettivo. Nulla di personale, davvero. Oltretutto, se tu mi fermassi veramente, probabilmente ti sorriderei anche. Se mi chiedessi informazioni, te le darei volentieri. Adoro dare informazioni. Mi piace sentirmi utile. Per 5 minuti mi cullo nell’illusione che tu ti ricorderai di me.
Ma così ti odio. Pazienza. ”E’ la vita”, “Capita”, “Succede”… filosofie da basso profilo che ci inculcano fin da piccoli. Mi chiedo, a volte, che scopo aveva (o avevano) chi ha redatto il best seller “Le leggi di Murphy”… secondo me, oltre a far soldi con i luoghi comuni, ha tentato di sdoganare l’accettazione cinica di quanto accade e prosciugarci di ogni istinto di reazione, al motto di “tanto…”. “Shit happens”. Che cagata, per rimanere in tema.
Il cinismo è stupido. Ti svuota. Invece io, gentile sconosciuto, ti odio. No, non ti accetto come un male necessario. Ti odio proprio. E’ un sentimento molto più vivo, non credi? Sapevo che mi avresti capito. Siamo d’accordo, l’odio non sarà vitale, ma è vivo. E può preludere anche a qualcos’altro.
Rapida, rapida. Fa freddo. Eppure sudo. Sudo sotto il cappotto, sotto la sciarpa, sotto i guanti. Per fortuna ho la canottiera di cotone. Che asciuga. Asciuga sudore, umori, odori. Tutto mio. Corro, quasi. Chissà… magari questi sconosciuti che guardo con odio pensano che io stia andando da qualche parte, che sia in ritardo a qualche appuntamento o che abbia una voglia matta di andare a litigare.
Pensino quel che vogliono. No. Quando il tempo è così, quando il mio umore è così, l’unica cosa che posso fare è uscire per strada, deviare dalle solite mete e odiare il mio prossimo. Disperdo il mio odio. Lo dilapido a piene mani. Lo lascio libero. Una volta liberato, è difficile che torni indietro. E’ così selvaggio. Al massimo, ne produrrò altro. Non c’è mai penuria di materiale, di buon materiale, per riprendere a odiare e sfogarsi.
Tutto questo per non odiare chi veramente dovrei odiare e affrontare. E’ molto più comodo dispensare veleno in giro, senza neanche far caso ai volti nei quali punti gli occhi.
E’ incredibile che la paura ti spinga a produrre tossine in tal misura da riversarle così, casualmente, piuttosto che incanalarle nella giusta direzione e renderle energizzanti.
Pensa te… riesco a sprecare persino il mio odio. Sarà pure vivo, ma riesco a sprecarlo da dio, come tutte le altre mie energie.
Odio. Ho ripetuto questa parola talmente tante volte che ormai me ne sfugge il significato.
Gentile odiato sconosciuto, mi aiuterai a capire che cosa significa, per me, odiare? No, so già che non mi aiuterai. Hai la tua meta. E infatti, è per questo che ti odio.
No, non è invidia. O meglio: cerco di convincermi che non è invidia.
Ma sono qui. Sotto il mio ombrello giallo, sotto la pioggia, fremente di caldo, il fiato si condensa, le gambe mi reggono a stento. Forse dovrei rallentare. Forse. Il lungo viale affollato sta finendo. Alla fine rallenterò. Mi infilerò in una stradina deserta, di quelle medievali, strette, antiche; una di quelle dove ci si rifugia in estate, sempre all’ombra, sempre fresche. E là rallenterò. Mi fermerò a vedere le poche vetrine. Ad ascoltare i rumori della città, che mi arriveranno lontani, ovattati. Perché lì non c’è traffico, non c’è folla. Lì posso ricordare.
Cammino veloce, spedita. Lo sguardo è ancora profondo, carico d’odio, intenso, caldo, bollente. Non mi vedo, ma so che è così. Non è glaciale, sfatiamo questo mito dell’occhio azzurro. Anche le fiamme possono essere blu. Meglio così intenso e impegnato a comunicare odio (e non disprezzo) piuttosto che attendere che gli occhi si gonfino di lacrime. Mi vien da piangere. Ma non è il momento. Non ora. Più tardi.
Cammino e mi perdo. Mi perdo e mi stanco. Perdo tempo e mi sfogo. O meglio, comincio a sfogarmi.
Poi giuro, giuro a me stessa, giuro così forte da potermi contraddire, sconfessare e tradire con estrema facilità. Giuro che, una volta che mi sarò stancata e sfogata, riprenderò a costruire, a vivere, a essere amata, a essere odiata. A Essere. Fino alla prossima volta.
Mi vien da piangere sotto il mio ombrello giallo.
Mi chiamo Eva. Vorrebbe dire Vita. Vorrebbe essere Vita.
Chissà se la prima Eva odiava. Chissà se correva sotto la pioggia. Lei, lei no, lei non poteva odiare la folla. Lei poteva odiare Adamo e la sua debolezza; poteva odiare i suoi figli; odiare il loro odio, odiare il loro amore. Poteva odiare Lilith, creata dal fango, essere primigenio come Adamo, dal quale Eva trasse radici. Poteva odiare le sue radici. E i suoi rami. Poteva odiare tutto ciò. Ma poteva anche amarlo. Gran cosa il libero arbitrio.
Mi chiamo Eva. Fin da bambina “Porca Eva”. Mica perché io sia una porca, nel senso lato del termine. Me perché faceva ridere. Fa ridere. Una volta ho sentito imprecare mio padre: “Puttana Eva!”. Credo si fosse tagliato un dito. Non ho neanche dovuto chiedere a mamma che volesse dire “puttana”. Un telefilm me lo aveva già insegnato. Per fortuna papà non mi ha vista. Ero nell’altra stanza. Altrimenti avrei dovuto ricordargli che il mio nome l’aveva scelto lui. Che neanche era cattolico, poi (ora lo è. Per convenienza, ma lo è).
Il ticchettio della pioggia sul mio ombrello sta diminuendo d’intensità. No ti prego. Non ti fermare. … Grazie.
I polpacci mi tirano. Incomincio a sentire le punte dei piedi bagnate. Spero di non ammalarmi. Quando mi ammalo divento triste. E poi faccio fatica a stare meglio.
Oggi odio, ma di solito sono nel torrente della vita, la vivo, rido, scherzo. Vivo. Eva vuol dire Vita, no?
Oggi odio. Mi crogiolo nel mio odiare. Ha quasi un senso. Eppure ho nostalgia della vita e di ciò che essa comporta, l’amore.
Ma oggi odio. E ho paura dell’amore, nonostante lo desideri.
E’ il desiderio della frustrazione. O la paura dell’appagamento. Che poi è la stessa cosa.
Gentile sconosciuto, tu chi ami? Non importa, non voglio saperlo. Potrei odiarti ancora di più.
Perché si ha paura di essere appagati? Credo che sia perché l’appagamento è compimento, è fine. Non arrivo a dire morte, ma forse sera sì. Poi bisogna ricominciare a desiderare daccapo. Un tragitto fatto di brevi tappe: individuo – desidero – lavoro e costruisco – ottengo. E via da capo. Credo, invece, che il mio misticismo mi porti a cercare un percorso ben più lungo. Non tanti piccoli obiettivi da realizzarsi, ma un unico grande sogno. Credo anche che sia un’utopia irrealizzabile. Ma non è cinismo, questo. No, no. E’ che non mi sento a mio agio in questi limiti. In queste tappe.
Mi chiamo Eva, Vita. Ma non credo di aver ancora afferrato bene come si vive la vita. Non credo di aver mai accettato i limiti. Ma cos’è? Pigrizia, accidia? O solo una falsa ribellione.
Mi chiamo Eva. Cammino in centro, sotto la pioggia e un ombrello giallo. Cammino odiando la folla. Cammino veloce, come per sfuggire a qualcuno, senza meta.
Ma una meta ce l’ho: casa. Casa, il mio quaderno; e la mia perseveranza.
La mia mente è veloce. E tutti i miei pensieri mi sembrano degni di essere annotati. A volte profondi, a volte geniali, a volte arzigogolati, a volte comici, generosi, acidi, filosofici. Ma tutti, senza fallo, si perdono nella memoria. Alcuni sono gradini della mia crescita, altri evaporano, come alcol sulla pelle… lasciano solo un vago sentore di buono.
Ho letto di un’eroina di carta che scriveva, scriveva, scriveva. Teneva un diario (come la mia amica Sara. Ha riempito annate e annate di agende e diari). Cosa che io non sono mai riuscita a fare (solo ora, quando me ne ricordo e quando le mie riflessioni sono particolarmente limpide, riesco a segnare il mio quadernino). Era bella, e intelligente, e corteggiata. E distante. Teneva tutto distante. E questo lo so fare benissimo. Aveva cominciato decine e decine di racconti; scrivere un romanzo era il suo chiodo fisso. MA si bloccava. Oltre a un certo punto non riusciva ad andare. Come nelle relazioni sentimentali: non si lasciava andare. E se lo faceva, si faceva ferire, lasciare. A volte lasciava, però, dopo essere stata ferita.
Anch’io non so amare oltre a un certo punto. Anch’io mi blocco ogni volta che scrivo.
Ma io, Eva, non sono un’eroina di carta. No. Non farei tirare a nessuno i fili della mia vita, non sarei la sceneggiatura di nessuno. Neppure se fossi veramente di carta.
Odiato sconosciuto, ti sembro forse di carte? Dalla spallata che mi hai appena tirato, direi di no. Sì, ti scuso. Ma guarda dove vai. Non evitare i miei occhi. Tra poco l’odio finirà.
Le gambe tremano. Ma ho finalmente raggiunto il vicolo quieto, la stradina semideserta, protetta dal traffico dai suoi acciottolati assassini. Solo i masochisti e gli amanti la sanno apprezzare in pieno. Mi diverto a pensare di appartenere a entrambe le categorie. Ma no, io sono soltanto Eva.
Qua posso rallentare. Il fiato si fa regolare. Continua ad addensarsi. Ma sono protetta dal calore della fretta di prima. Ho esaurito il nutrimento, l’odio carburante della velocità.
Ora rimane da piangere. Non c’è più nessuno da odiare, né rabbia repressa per alimentare l’odio. Sono spossata. Vorrei piangere, di disperazione e di sollievo. Sono come svuotata. Cammino, lenta. Ora l’ombrello giallo è nella mia mano sinistra. Ci sono case; più pochi, ormai, i negozi. Non mi levo il cappello. Ho i capelli intrisi di sudore.
Stanotte ho sognato. Ho sognato di essere al mare. Di non sapere come vestirmi. Di sapere come vestirmi, con la maglietta rosa. E di non trovarla, quella maglia, perché non ci vedevo più. I miei amici mi avevano lasciata a casa, stufi di aspettare. Alla fine li avevo raggiunti in bici. Parlavano, ma non li ascoltavo. E loro ignoravano me. Erano arrabbiati con me. Non capivano perché io fossi così diversa, da loro, da me. A volte vedevo, altre no.
Questa notte non respiravo, o meglio, respiravo a fatica. E con poco ossigeno, sognavo. Sognavo tanto. Malinconia, senso di oppressione e abbandono. La schiavitù del deja-vu.
E’ autunno. Non ho mai effettivamente capito perché nella nostra società l’autunno – l’inizio della fine – coincida con l’inizio psicologico dell’anno. Forse perché è faticoso. Tutti gli inizi sono faticosi. Ecco… ci dev’essere stata una sovrapposizione di questo tipo.
Ora mi viene quasi da piangere. Non più da piangere e basta. Io ho rallentato, e anche lo stimolo alle lacrime si è attenuato.
Con la velocità mi sfogo, butto via, espello. Ma non vedo molto chiaro. Forse è per questo che stanotte non trovavo la mia maglia rosa. Per fortuna, a un certo punto, è quasi obbligatorio rallentare. Così la vista si fa più nitida.
L’odiato sconosciuto, anche se gentile, è sfumato. Come sfumano le prime gocce di pioggia sull’asfalto caldo. Anche se quello è il tempo degli acquazzoni estivi. Mentre ora siamo in autunno. Vapore che mi lascio alle spalle, nel gran viale.
Viuzza antica che mi porta a casa. Per vie tortuose ci arriverò. E lentamente. Con un nodo in gola. Nodo di paura e di speranza.
Quando e se avrò una figlia, mi piacerebbe chiamarla Speranza. Speranza, Hope, Esperança, Esperance, Spes, Elpis. Ma è troppo presto, ora. Forse sarà sempre troppo presto per il quadretto di felicità che mi sono costruita e inventata. Il quadro è sempre lì, fisso, immobile; mutano alcuni particolari, a volte. Sembra quasi uno di quei quadretti con le figure in rilievo, quelle case di bambola con tutti gli arredi in miniatura.
Una volta ne ho visto una, di casa di bambole. Era bellissima. Non una di quelle case che le bambine vogliono da piccole. No. Era grandissima. La riproduzione in scala di un mini quartiere. Con casa padronale, cantine, soffitte per i domestici. Nei vani a pianterreno c’erano i negozi; al primo piano la sarta e la sala da the. Arredata alla perfezione, in stile metà ‘800, enorme, abitata. Ci ho vissuto anch’io per mezz’ora. In quella mezz’ora d’incanto, passata a osservarla da fuori come se in realtà vi fossi dentro io stessa.
La mia speranza è come quella casa. Con arredi e figurine che posso muovere a mio piacimento, come a giocarci.Ed è triste. E’ triste che io voglia controllare la mia vita come una casa di bambola. E’ normale, ma triste.
Credo che, alla fine, non chiamerò mia figlia Speranza. Potrebbe rischiare di diventare bambola in casa di bambole. E prigioniera di me, sua madre, la vita. Eva.
No, credo che terrò le mie speranze per me. La mia Speranza. La coltiverò e la cambierò in base a quello che la Vita, io stessa, Eva, vorrà darmi.
Mi chiamo Eva. Il fiato è tornato normale. Si condensa. Piove. Piango. Sotto il mio ombrello giallo. Sono sola, single, in gergo tecnico. Sono al terzo mese. Ragazza madre. Eva madre. E avrò una figlia. E la amerò. E la odierò. E la amerò. In qualsiasi modo la chiamerò. In qualsiasi modo si chiamerà. Perché sarò sempre sua madre. Eva.



"Adamo ed Eva", Tamara de Lempicka

1932, collezione privata



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Questo testo l'ho scritto anni fa. Non ricordo l'anno e ora non ho voglia di andare a cercare.

Rileggendolo, lo trovo ancora molto acerbo. Ma gli sono affezionata. Perchè mi è letteralmente sgorgato fuori, in un momento di profonda tristezza. E fu catartico.