Esce dalla stanza
si spoglia delle vesti antiche
si lava via l'orgoglio
si scioglie i capelli.
Comincia così
il suo cammino,
nuda, sulla neve,
principio unico, matrilineare.
Costante e lenta,
coperta solo
del sorriso obliquo
che strega le genti.
Rassicurante
come l'incertezza
del domani.
Ad ogni passo
accoglie
consola
risana.
A ogni passo
una lacrima e un sorriso,
per la coscienza dell'antico
e il coraggio dell'avanzare.
Ecco colei che accoglie
ecco colei che crea
ecco colei che cammina.
Nuda, sulla neve.
12.07.2008
Alberto Giacometti
Donna che cammina (Femme qui marche), 1932
Bronzo, altezza 144,6 cm
Collezione Peggy Guggenheim, Venezia
lunedì 21 luglio 2008
martedì 8 luglio 2008
Hopeless
"Guarda meglio, non hai visto quel pacchettino grigio, in fondo al sacchetto?"
E lo trovai davvero, quel fagottino che al tatto sembrava un libriccino morbido.
Presi a scartarlo, con furia misurata. A prima vista sembrava una sagoma di cartone, un orsetto, di quelli a cui puoi cambiare gli abiti di carta. A un'occhiata più attenta, si rivelò un abitino beige, alla marinaretta, da neonato.
Sorpresa, muto stupore. Un singhiozzo. Un altro.
Lacrime gonfie e un urlo muto, dentro di me.
"Non posso, non posso, non posso". Ripetuto all'infinito.
Un dolore imploso e implodente, che non lasciava entrare nulla, neanche l'aria. Provai a singhiozzare, provai a farmi strada nell'aria. Ma "non posso, non posso, non posso!". Provai ad alzare la testa, ma le lacrime mi lavavano la faccia e mi facevano il solletico sulla pelle ancora asciutta.
Era un'angoscia infinita, non ne vedevo la fine. Perdurante costanza.
E l'apnea. Sempre più lunga. Sempre più infrangibile. Un singhiozzo dietro l'altro, e non respiravo, non respiravo, non respiravo, quasi affogata dalle mie stesse lacrime.
"Non posso, non posso, non posso". Non potevo respirare?
Un guizzo, un movimento improvviso, uno strappo.
E sono sveglia.
Sono sveglia e respiro. Sono sveglia e non singhiozzo. Sono sveglia e non ho abitini da neonato tra le mani.
Non potevo. Non posso.
Posso?
Roy Lichtenstein
"Hopeless"
1963, oli on canvas
E lo trovai davvero, quel fagottino che al tatto sembrava un libriccino morbido.
Presi a scartarlo, con furia misurata. A prima vista sembrava una sagoma di cartone, un orsetto, di quelli a cui puoi cambiare gli abiti di carta. A un'occhiata più attenta, si rivelò un abitino beige, alla marinaretta, da neonato.
Sorpresa, muto stupore. Un singhiozzo. Un altro.
Lacrime gonfie e un urlo muto, dentro di me.
"Non posso, non posso, non posso". Ripetuto all'infinito.
Un dolore imploso e implodente, che non lasciava entrare nulla, neanche l'aria. Provai a singhiozzare, provai a farmi strada nell'aria. Ma "non posso, non posso, non posso!". Provai ad alzare la testa, ma le lacrime mi lavavano la faccia e mi facevano il solletico sulla pelle ancora asciutta.
Era un'angoscia infinita, non ne vedevo la fine. Perdurante costanza.
E l'apnea. Sempre più lunga. Sempre più infrangibile. Un singhiozzo dietro l'altro, e non respiravo, non respiravo, non respiravo, quasi affogata dalle mie stesse lacrime.
"Non posso, non posso, non posso". Non potevo respirare?
Un guizzo, un movimento improvviso, uno strappo.
E sono sveglia.
Sono sveglia e respiro. Sono sveglia e non singhiozzo. Sono sveglia e non ho abitini da neonato tra le mani.
Non potevo. Non posso.
Posso?
Roy Lichtenstein
"Hopeless"
1963, oli on canvas
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